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L’industria della moda ed il fast fashion garantiscono una grande quantità di abiti sul mercato a costi contenuti, ma hanno conseguenze ambientali a dir poco disastrose.
Il fast fashion è un modello di business dell’industria della moda basato sulla velocità e sull’abbattimento dei costi, ma a discapito di sostenibilità e qualità dei vestiti. Il risultato è un ciclo costante di acquisti e rifiuti. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, le emissioni dovute alle produzione tessili potrebbero aumentare del 60% entro il 2030.
Secondo alcune analisi, il mercato dell’abbigliamento è raddoppiato negli ultimi 15 anni ma, nello stesso periodo, la “vita” media dei vestiti si è ridotta. Molte case di moda proponevano appena 2 collezioni in un anno, ora il numero è raddoppiato. Rispetto a vent’anni fa, un capo d’abbigliamento è indossato il 36% di volte meno prima di diventare un rifiuto. Questo ha portato ad una produzione annua globale di 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, che saliranno a 134 milioni di tonnellate entro il 2030. La maggior parte di questi rifiuti tessili, circa l’87%, finisce in discarica, l’1% viene riciclato ed il restante riesce ad essere riutilizzato.
L’impatto ambientale della Moda
La produzione tessile utilizza moltissima acqua in ogni sua fase: dalla coltivazione del cotone ed altre fibre vegetali, fino alla lavorazione e tintura dei capi. Diverse stime indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua. Si tratta del quantitativo che una persona adulta assume in circa 2 anni e mezzo di vita.
Oltre al consumo di acqua il settore tessile è responsabile di circa il 10% delle emissioni mondiali di CO2.
La produzione però, fa anche un largo uso di tessuti sintetici come il poliestere, che è un derivato del petrolio. Questo tipo di prodotti sono una grande causa di microplastiche. I capi contenenti fibre sintetiche, come poliestere e nylon, non sono biodegradabili e contribuiscono all’accumulo di plastica negli oceani. Ad ogni lavaggio questi indumenti rilasciano migliaia di microfibre, le quali attraversano i filtri e finiscono nelle acque, andando a danneggiare gli ecosistemi marini. Un singolo carico di biancheria in poliestere può produrre centinaia di migliaia di frammenti di microplastica. Secondo gli ultimi calcoli, circa mezzo milione di tonnellate di microplastiche prodotte in un anno, a livello globale, proviene dal lavaggio di capi sintetici.

I rifiuti tessili esportati nel mondo
Come menzionato prima, la percentuale di rifiuti tessili che viene riciclata o riutilizzata è molto esigua, la grande maggioranza finisce in discarica.
Quando un indumento è differenziato nel cassonetto apposito, oppure donato ad una qualche associazione umanitaria, questo viene esaminato e valutato. Una piccola parte di abiti, generalmente quelli che sono fatti di un unico materiale, ma troppo rovinati, sono inviati al riciclo, quelli che sono ancora in buone condizioni vengono riutilizzati, ma tutti gli altri saranno gettati via. I rifiuti tessili però sono così tanti, grazie soprattutto al fast fashion, che devono essere esportati in giro per il mondo.
Esistono enormi discariche, spesso abusive, in paesi come il Cile e il Ghana, dove i vestiti vengono accumulati in enormi quantità. In questi luoghi, le persone cercano di riutilizzare ciò che possono, ma si tratta di tonnellate di rifiuti che finiscono per essere lasciati agli elementi. Non è raro vedere animali pascolare su metri e metri di abiti impilati in enormi mucchi. Per queste persone, spesso l’unica soluzione per questi rifiuti è bruciali. Questa pratica espone ai fumi tossici derivati dalla combustione delle fibre sintetiche, cambiando forma all’inquinamento prodotto dai rifiuti tessili.
Il fast fashion e lo schiavismo moderno
L’industria del fast fashion non solo danneggia l’ambiente, ma è anche causa di gravi ingiustizie sociali, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Diverse indagini svolte degli organismi di settore di tutto il mondo (incluso il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti) hanno riscontrato il ricorso a lavoro forzato e minorile nell’industria tessile, in paesi come Bangladesh, India, Cina e Vietnam. Come se tutto questo non fosse già grave, le persone che vivono in territori la cui economia locale è dipendente dal riciclo e la produzione di capi d’abbigliamento, devono convivere con i danni ambientali provocati da questa industria. Natura e ambiente sono fortemente compromessi dalla produzione industriale intensiva e dalle discariche di vestiti. Questo intrappola migliaia di persone in un circolo vizioso in cui la povertà porta al degrado ambientale, che a sua volta incrementa la povertà.
Sfruttamento sistematico
L’industria della moda è un settore dai guadagni milionari, ma che agli operai da poche briciole a fronte di condizioni di lavoro praticamente di schiavitù. Nelle fabbriche tessili di Dacca, ad esempio, lavorano tantissimi minori, con turni estenuanti per una paga di circa 4 euro al giorno. Questi bambini respirano sostanze tossiche come il mastice, che a volte utilizzano come droga contro fame e fatica, ma che causa gravi danni al cervello.

In India, l’elenco delle violazioni dei diritti umani e del lavoro perpetrate dalle aziende del fast fashion è impressionante: salari bassissimi, turni anche di 20 ore al giorno, nessuna misura di sicurezza sul lavoro, eventuali cure mediche in caso di incidenti sul lavoro non sono previste, e sono sempre a carico dei lavoratori. Abusi verbali, fisici e sessuali sono perpetrati alle giovani lavoratrici e minori, con casi di vero e proprio sfruttamento sessuale.
Come si può combattere l’ingiustizia e l’inquinamento del settore della moda?
L’impatto ambientale dell’industria della moda, e soprattutto del fast fashion, è enorme, che queste facciano uso di fibre naturali oppure no. Seppur vero che tessuti diversi provocano danni differenti, il problema maggiore risiede nella mole di produzione e dall’abbattimento dei costi a scapito dei lavoratori. Un’industria che, come quella tessile, produce molto più del necessario (tra il 15 ed il 25% degli abiti nuovi resta invenduto) in un’ottica di prodotto quasi usa e getta, e che si affida allo smaltimento a fine vita, non è in alcun modo ambientalmente sostenibile.
Si può fare molto per cambiare quest’industria: adottare strategie mirate ad una riduzione delle produzioni che puntano più sulla qualità anziché sulla quantità. Se un prodotto dura più a lungo senza perdere qualità, i consumatori saranno propensi ad utilizzarlo per più tempo e più volte, soprattutto se questo è più costoso rispetto ad un prodotto di qualità inferiore. Molto spesso, un prodotto di qualità può significare un costo iniziale maggiore ma, durando di più nel tempo, ha un peso economico minore rispetto a più acquisti ravvicinati.
L’industria non può sottrarsi dal seguire il mercato: se i clienti domandano prodotti etici e di qualità, seppur più costosi, i produttori dovranno adeguarsi per non perdere vendite.
Sono sempre più diffusi nuovi modelli di business per il noleggio di abbigliamento: soprattutto per abiti da cerimonia o che vengono indossati raramente.
Sempre più spesso, i prodotti di nuova progettazione sono realizzati in modo da rendere riutilizzo e riciclo più facili. In questi casi si può parlare di moda sostenibile.
Come si stanno muovendo le istituzioni contro l’inquinamento dell’industria della moda?
Nell’ambito del piano d’azione per l’economia circolare, a marzo 2022 la Commissione europea ha presentato la propria strategia. Questa comprende diversi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti, informazioni più chiare al consumatore, un passaporto digitale dei prodotti e l’invito alle aziende ad assumersi la responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di CO2 e ambientale.

marchio Ecolabel UE
L’UE ha anche messo a disposizione il marchio Ecolabel UE: quei produttori che si impegnano a rispettare i criteri ecologici possono fare domanda alle autorità nazionali dei vari paesi dell’Unione Europea per poterlo applicare ai propri articoli. Questo marchio è concesso ai prodotti che contengono meno sostanze nocive e causano meno inquinamento dell’acqua e dell’aria.
Sempre a livello europeo, nel marzo 2024 il Parlamento ha presentato alcune proposte di modifica (poi approvate) alle norme sui rifiuti tessili. La revisione della direttiva sui rifiuti ha introdotto schemi di responsabilità estesa del produttore. Questo significa che sia i produttori, sia le aziende che immettono i prodotti tessili sul mercato unico europeo, devono coprire i costi della raccolta differenziata, dello smistamento e del riciclaggio dei prodotti quando questi diventeranno rifiuti.
Come si sta muovendo il resto del mondo?
Negli Stati Uniti d’America, la legislazione sulla sostenibilità tessile è materia dei singoli Stati: non esiste una norma federale in materia di responsabilità estesa del produttore per i rifiuti tessili.
Sfortunatamente questo significa che in quegli stati dove l’amministrazione è meno aperta alle lotte ambientali e climatiche, la legislazione può essere carente. Soprattutto a causa delle attività di lobbying che le multinazionali esercitano sulla politica.
L’Asia, essendo il più grande centro di produzione tessile mondiale, (i 2 più grandi produttori tessili al mondo sono Cina e India, seguiti dalla Turchia) è orientata alla regolamentazione di produzione e emissioni.
La Cina ha lanciato piani con obiettivi specifici con focus sul riciclaggio dei rifiuti tessili e la riduzione delle emissioni industriali.
L’India ha forti attenzioni sulla produzione agricola di cotone e leggi orientate su un ruolo significativo del riciclo meccanico dei tessili a fine vita. Con questi propositi ha adottato diverse leggi ambientali e regolamenti sull’inquinamento idrico delle industrie. Tuttavia, queste sono di difficile applicazione e molte delle sue aree industriali tessili hanno gravi problemi di gestione degli scarichi idrici.
