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Il Greenwashing o ecologismo di facciata, è la pratica in cui delle aziende o partiti politici, fingono interesse e attaccamento all’ambiente con l’intento di migliorare la propria immagine verso il pubblico.
Il Greenwashing è a tutti gli effetti di una pratica commerciale ingannevole, usata da certe aziende con l’obiettivo di catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità. Solitamente avviene tramite pubblicità, ma a volte anche attraverso campagne sociali.
Il suo utilizzo ha due obiettivi principali: migliorare la reputazione ambientale di un’impresa e aumentarne il fatturato allargando il bacino di clientela. Attualmente, questa pratica è sanzionata in Italia dallo Iap e dall’Antitrust.
La Federal Trade Commission (FTC) americana, nei primi anni 2000 ha stilato delle linee guida per l’utilizzo di “dichiarazioni di marketing ambientale”, imponendo alle aziende chiarezza e trasparenza. Queste devono definire entità e portata del proprio impegno ambientale e nel farlo devono adottare precise scelte stilistiche e linguistiche.
Oggi però il pubblico è più attento a questi argomenti e le aziende devono fare attenzione perché è aumentata la consapevolezza e la conoscenza delle persone. I danni che le imprese colte in fallo possono subire sono sia di natura economica sia d’immagine. Senza contare i danni ambientali che provocano con prodotti poco ecosostenibili, ma spacciati per amici dell’ambiente.
Cos’è il Greenwashing?
L’ecologismo di facciata è una strategia di comunicazione. Può essere adottata da imprese, organizzazioni o istituzioni politiche che dichiarano un impegno e un attaccamento alle necessità ambientali, ma che in realtà non esiste. Lo scopo è di migliorare la propria immagine, rendendola positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. In questo modo si rendono attraenti verso il consumatore ecosensibile che così si riconosce nella filosofia, in realtà solo di facciata, di queste realtà.
Chi lo pratica, comunica tramite i propri canali social e sui media, di impiegare prodotti riciclati o adottare processi produttivi sostenibili, mentendo. Oppure dichiara di applicare nuove pratiche sostenibili, ma che in realtà servono a mascherare altre che contrastano con l’impegno adottato.
Questo fenomeno non è nuovo. Il primo a parlarne fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld che utilizzò il termine “Greenwashing” nel 1986 per stigmatizzare una pratica delle catene alberghiere. Queste facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani. La loro reale motivazione però, era legata al risparmio economico, dato che era motivata da un taglio nei costi di gestione.
Con il tempo, la pratica del greenwashing si è intensificata. Alcune grandi aziende americane petrolchimiche, come ad esempio Chevron o DuPont, tentarono di spacciarsi come eco-friendly cercando di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle loro pratiche tutt’altro che ecosostenibili che stavano causando grandi danni con l’inquinamento. Fu questo caso specifico a diffondere il termine greenwashing, parola composta da green (verde/ecologico) e whitewash (insabbiare, ripulire).
Le aziende colpevoli di greenwashing si proclamano sensibili ai temi ambientali pur non essendolo. Dichiarano di seguire un processo lavorativo ecosostenibile solo per distogliere l’attenzione da altre pratiche aziendali in realtà ben poco green.
Come si fa il Greenwashing?
Il Greenwashing è praticato in molti modi, alcuni diametralmente opposti ad altri.
Ad esempio, lo si può fare adottando un linguaggio vago e approssimativo nei propri proclami. Oppure lo si può fare usando termini molto specifici e tecnici che sono quasi sempre incomprensibili per il grande pubblico. Si fa greenwashing utilizzando toni di verde nelle proprie pubblicità e immagini che evocano la natura incontaminata. Sono pratiche abbastanza semplici e largamente diffuse perché traggono facilmente in inganno.
Un altro tipo di Greenwashing avviene quando un’azienda in una pubblicità sostiene che un prodotto sia ecologico o a basso impatto ambientale, ma lo fa basandosi arbitrariamente su un set di parametri molto specifici. Questo tipo di frode avviene spesso, con alcuni detergenti. Si presentano come alternativa ecosostenibile dato che, durando di più, richiedono il consumo di meno flaconi in plastica. Di contro, non specificano che, in molti casi, contengono una concentrazione maggiore di derivati del benzene, altamente inquinanti.
Slogan e proclami ambientalisti vaghi, o fatti apposta per essere fraintesi dai consumatori che sono meno esperti di sostenibilità, sono comuni. I dati forniti, spesso devono essere interpretati tramite informazioni o conoscenze tecniche che il consumatore finale raramente possiede. Basti pensare ad una marca di bibite che dichiara di essere diventata più green quando la produzione di una sola lattina di prodotto richiede l’impiego di oltre due litri di acqua.
Gli esempi di Ecologismo di Facciata sono molteplici
Il Greenwashing può presentarsi con l’uso di richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale come filosofia o mission dell’impresa, non solo nella pubblicizzazione dei prodotti come risultato di processi sostenibili. Queste affermazioni però non sono supportate da azioni e risultati credibili nel miglioramento dei processi produttivi o dei prodotti realizzati.
Fare greenwashing significa anche utilizzare il marketing per nascondere pratiche e situazioni negative per un’azienda. Per esempio, proporre come gadget aziendale una bottiglietta per promuovere il risparmio di plastica, quando di contro, la normale produzione dell’azienda in questione non presta attenzione agli sprechi.
Un altro esempio di Greenwashing è quello di presentare una pratica comune e rispettata come requisito legale, come se fosse una scelta votata alla salvaguardia di ambiente e animali. Sono emblematiche le varie diciture sui prodotti di consumo che recano la scritta “senza antibiotici“: tutti i prodotti di origine animale (compreso il pollo), per legge non devono contenere residui di farmaci, quindi sono sempre “senza antibiotici”.
Quali sono dei casi di ecologismo di facciata di cui si ha la certezza?
Uno dei casi più noti di greenwashing è quello che ha visto Eni condannata per le sue affermazioni sul suo BioDiesel. L’azienda sosteneva che utilizzando il suo biodiesel, non solo si sarebbe inquinato meno, ma addirittura si sarebbe fatto del bene all’ambiente. Un altro esempio famoso è il caso della Coca-Cola Life. Qualche anno fa, la bibita veniva venduta come prodotto a basso contenuto calorico per la sostituzione dello zucchero con la stevia.
In Italia, tra i casi più famosi di greenwashing c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la propria bottiglia a “impatto zero”. Questa prometteva la compensazione della CO2 emessa, attraverso la tutela di nuove foreste: l’azienda è stata multata perché la definizione di “impatto zero” lasciava intendere che la CO2 venisse interamente compensata. Nel 2010, lo stesso accadde alla San Benedetto. L’azienda è stata multata per avere promosso la sua bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” in diverse pubblicità. Stesso iter anche per le bottiglie di Sant’Anna, che è stata multata nel 2012 perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia dichiarava pregi ambientali superiori alla realtà.
Da questi casi si possono osservare quelle che sono le affermazioni generali più utilizzate, che si fanno quando si cerca di effettuare Greenwashing:
- non si forniscono informazioni e dati precisi a supporto di ciò che si dichiara nella propria pubblicità;
- i dati vengono presentati come accreditati e certificati, quando, al contrario, nessun organo autorevole lo ha fatto;
- vengono enfatizzate singole caratteristiche di un prodotto, considerandole sufficienti a renderlo ecosostenibile;
- le informazioni fornite sono generiche e vaghe, i cui significati possono essere fraintendibili dai consumatori;
- le etichette hanno loghi, parole o certificazioni contraffatti;
- le parole “bio”, “eco” e “naturale” sono enfatizzate e usate di continuo;
- si fanno affermazioni ambientali completamente false o non dimostrabili.
Cosa dice la legge italiana sul Greenwashing?
In Italia, fino al 2014 non c’era un riferimento legislativo specifico per il reato di greenwashing. In tale campo, il controllo era affidato all’Antitrust, sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che fa il primo riferimento sull’abuso di diciture volte a richiamare la tutela ambientale.
Oggi in Italia, l’ecologismo di facciata appartiene alla categoria della pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Grazie al lavoro di quest’organo, molte aziende che facevano uso del Greenwashing sono state condannate. La Snam ha subito una condanna nel 1996 per il suo slogan “Il metano è natura”, la San Benedetto, la Ferrarelle e la Sant’Anna visti prima ne sono solo alcuni esempi.
Come ci si può accertare sulla veridicità delle affermazioni delle aziende in tema di ecosostenibilità?
Si può controllare la presenza di certificazioni ambientali autorevoli. Alcune sono gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tiene conto di vari parametri) e ISO 140001 (riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione). C’è il GRS, cioè Global Recycled Standard per quanto riguarda le aziende che si occupano di materiali riciclati. La presenza di questi strumenti di marcatura ed etichettatura dimostrano l’aderenza delle aziende a regimi sicuri di tutela ambientale e risparmio energetico.